LA FOTOGRAFIA di PAESAGGIO: alcune osservazioni
Di Federica Cerami
Henry Cartier-Bresson diceva:
“Per noi fotografi ciò che sparisce, sparisce per sempre”.
L’occasione dura un attimo e quell’immagine che ci si prefiggeva di fissare non esisterà mai più per come abbiamo desiderato realizzarla.
Se ciò vale per qualsiasi oggetto si voglia fotografare, maggiormente vale per la foto di paesaggio che è soggetto a continue variazioni di luce.
Fotografare un paesaggio può sembrare semplice.
IL PAESAGGIO
Il paesaggio non è soltanto un bel panorama, come a volte pensa la gente, ma costituisce il sistema delle informazioni connesse ai luoghi.
E’ per questo motivo che il paesaggio è considerato tradizionalmente l’identità profonda di una regione.
Come sempre accade, il paesaggio è un repertorio di valori, di storie, di immagini mentali, di emozioni radicate storicamente nei luoghi (e memorizzate attraverso di essi), ma può offrire il suo aiuto alla declinazione di nuovi valori, di nuove emozioni, senza complessi, capaci di dialogare con le più lontane contrade e con le tecnologie più avanzate.
Il paesaggio è la particolare fisionomia di un territorio determinata dalle sue caratteristiche fisiche, antropiche, biologiche ed etniche; ed è imprescindibile dall’osservatore e dal modo in cui viene percepito e vissuto.
Il termine paesaggio deriva dalla commistione del francese paysage con l’italiano paese.
Tradizionalmente, infatti, il suo significato si legava in particolar modo alla pittura e al realismo di certe vedute paesistiche.
Il paesaggio, oltre ad essere oggetto di studio in differenti ambiti di ricerca, è esposto a significati talmente ampi, variegati e molteplici, da rendere arduo qualsiasi tentativo di circoscrizione.
Il ruolo della fotografia di paesaggio nelle campagne fotografiche di documentazione.
Consideriamo la fotografia sotto l’aspetto progettuale cioè con l’esigenza di creare un racconto che si regga su di un pensiero un ideale o una denuncia.
L’unico modo per immetterci in questo nuovo ordine di idee con consapevolezza è nel guardare alla storia.
Quale è il significato che la fotografia di paesaggio ha mantenuto rispetto alle storiche campagne di documentazione che si sono svolte in passato?
E’ necessario prima di tutto osservare la principale differenza concettuale che l’oggetto della fotografia di paesaggio, il territorio, presenta oggi rispetto ad un recente passato.
Solo dopo questa osservazione si potrà cogliere l’atteggiamento con il quale il fotografo, il cui ruolo interpretativo oggi viene ampiamente riconosciuto, affronta l’oggetto della sua personale interpretazione.
Quello che si chiedeva ieri, di fissare la bellezza naturale del paesaggio o di documentare attraverso la fotografia una realtà minacciata da cambiamenti incontrollabili, fissando attraverso l’obiettivo della macchina fotografica i mutamenti in atto, è adesso superato dalla chiara volontà di tentare di fotografare il mutamento stesso, di coglierne cioè attraverso le trasformazioni, le ragioni, l’essenza, la direzione.
Alla fotografia si chiede di più: non solo documentazione, ma “rivelazione”.
Non solo l’espressione di una realtà, vera pur essendo interpretata, ma le condizioni che hanno determinato questa realtà.
Questa difficile tipo di operazione concettuale equivale, volendo quasi usare un paradosso, a cercare di capire da un ritratto di un uomo, dove lui ha deciso di andare.
Anche se questo tipo di fotografia è oggi preziosissima per l’averci tramandato la forma di interi paesaggi o tessuti edilizi scomparsi, è innegabile che solo con la prima guerra mondiale e con l’urgenza di documentare le distruzioni operate dalla guerra, la fotografia di paesaggio cominciò ad essere più immediata e più tendente a rappresentare il punto di vista dell’operatore.
È anche grazie alla fotografia che, in questi ultimi decenni, si è maturata la consapevolezza della complessità del paesaggio.
I grandi interpreti che hanno agito in tal senso, come Ghirri, Jodice, Basilico, per dirne alcuni, fanno già parte della storia della fotografia contemporanea.
E’ opportuno, in tal senso, indicare per grandi linee quale è stata l’evoluzione storica del fenomeno “documentazione fotografica” dall’Ottocento ad oggi, per comprendere che dietro a questa realtà esiste una tradizione di notevole peso storico-culturale.
Risale al 1850 la “Mission Heliographique”, voluta dalla Commissione Francese dei Monumenti storici, della Administration des Beaux Arts, per attuare una catalogazione delle bellezze monumentali della Francia.
Oltre alle campagne non va dimenticata l’opera individuale, ma non per questo di minore portata, di Atget a Parigi compiuta agli inizi del ‘900.
Atget, propose una serie interminabile di immagini che ritraevano la sua Parigi e il paesaggio naturale circostante la città.
Tra le esperienze che fecero scuola si pone quella che venne commissionata alla Farm Security Administration nell’America degli anni 30 dopo la “grande depressione” del ‘29, che si riferì non solo al paesaggio in generale, ma essenzialmente ad i suoi aspetti critici come la siccità, la crisi delle aree agricole, le cattive condizioni abitative di certi centri rurali.
Alla fotografia Americana di quegli anni, dunque, si riconosce, un ruolo di strumento indagatore e non solo più catalogatore.
In Italia non possiamo non citare l’opera svolta con sistematica compiutezza dagli Alinari, nati nel 1852.
Infine, per il valore documentario legato anche ad un periodo storico in cui la fotografia divenne strumento di propaganda politica, citiamo l’opera dell’Istituto Luce, fondato nel 1922 e utilizzato per le campagne propagandistiche di Mussolini dal 1933
Nel dopoguerra avviene lentamente la svolta, il fotografo diventa autore, se ne riconosce prima di tutto un preciso ruolo, successivamente si valorizza la portata artistica di certe produzioni, che come opere singole sia come opere nel loro insieme.
In questo periodo si moltiplicano le iniziative che conducono a campagne fotografiche, sia a fini di propaganda turistica che a fini più prettamente documentativi delle località italiane.
Gruppi di fotografi o artisti isolati, realizzano opere fotografiche in cui danno libero sfogo alle proprie interpretazioni
Nel periodo che va dagli anni ’70 agli anni ’80 ha inizio anche il fenomeno che vede il moltiplicarsi delle mostre fotografiche e dei volumi di raccolta di immagini per temi o per autori.
Si moltiplicano le campagne fotografiche e questo avviene grazie ad iniziative personali o anche attraverso la committenza da parte di Regioni, Province o anche piccole comunità che desiderano avere una completa rappresentazione del proprio territorio.
Se svincolata da un preciso orientamento documentativo di tipo istituzionale, la fotografia di questo periodo si orienta ad un più maturo e riflessivo accostamento nella rappresentazione dei paesaggi.
Emergono nel panorama artistico nomi come quello di Ghirri, Guidi, Cresci, Jodice o Chiaramonte.
Nel 1984 è la “Mission Photographique de la Datar” a rappresentare una delle campagne fotografiche più imponenti a livello europeo; promotore ne è lo stato francese.
Tale progetto vede in campo fotografi come Doisneau, Koudelka e l’italiano G. Basilico insieme ad altri meno noti, a rappresentare per la prima volta in un disegno fotografico complessivo, il territorio urbanizzato e no, nei suoi vari aspetti.
La fotografia affronta anche gli aspetti meno belli ma più veri delle varie realtà territoriali.
Guarda alle periferie, ai territori sconnessi, stravolti, interpreta cogliendoli i primi segni di un mutamento, che oggi, a distanza di venti anni riusciamo a comprendere nelle loro dinamiche proprio grazie a quelle immagini.
Sia che questi lavori abbiano avuto un taglio poetico, surreale o documentativo, emerge sempre il valore aggiunto di avere fissato una realtà che oggi è mutata, e che grazie a queste opere, collettive o individuali, facenti parte di progetti o di una esigenza artistica personale dell’autore, possiamo ricostruire una storia in termini di evoluzione.
Il pensiero di Ghirri efficacemente chiarisce questo pensiero.
In un dattiloscritto del 1984 “La fotografia: uno sguardo aperto”, programma di un seminario all’Univ. di Parma, Ghirri afferma:
“Al di là degli intenti descrittivi ed illustrativi, la fotografia si configura così come un metodo per guardare e raffigurare i luoghi, gli oggetti, i volti del nostro tempo, non per catalogarli o definirli, ma per scoprire e costruire immagini che siano nuove possibilità di percezione”.
La fotografia non è pura duplicazione o un cronometro dell’occhio che ferma il mondo fisico, ma è un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari. [Luigi Ghirri]