Dopo aver analizzato “Sulla fotografia” di Susan Sontag, continuo a raccontare libri, perché sono sempre più convinta che, entrare nel mondo della fotografia comporta, come logica conseguenza, la necessità di avere un linguaggio comune che consenta di dialogare su piani che si intrecciano per creare, tutti assieme, una grande rete di scambio e di arricchimento.
Uno dei grandi saggi che non può mancare nelle nostre librerie è “Camera Chiara”, scritto dal semiologo francese Roland Barthes nel 1980.
Trovo molto interessante lo stratagemma comunicativo, di matrice autobiografica, utilizzato per entrare dentro la fotografia al fine di enucleare alcuni punti cardine del suo linguaggio e divulgarli.
Lo spunto narrativo nasce dal suo bisogno di riuscire a rintracciare una immagine che corrisponda all’essenza di sua madre, qualcosa che vada oltre, cioè, il mero aspetto di verosimiglianza e che ne restituisca una sua idea più intima.
Questa affannosa e lucida ricerca arriva al suo traguardo dentro una fotografia che ritrae sua madre, ancora bambina, in un giardino d’inverno.
Barthes era intento ad osservare una serie di fotografie di sua madre, senza riuscire però a ritrovarla e a riconoscerla totalmente, fino a quando non incrociò, dentro una vecchia fotografia, una espressione del viso della madre che lui definisce di innocenza.
Dentro quell’immagine Barthes fa coincidere l’essenza di sua madre in un sentimento che esprime ciò che egli aveva percepito di questa donna lungo la sua vita
Questo suo tempo dedicato alla ricerca prende anche la strada dello studio della fotografia, strumento che ha come suo punto cardine sempre e solo ciò che illustra.
Camera Chiara diventa, in tal modo, il luogo della osservazione e della annotazione e, fotografia dopo fotografia, Barthes offre al lettore una serie di importanti strumenti di lettura e decodifica delle immagini, partendo da una importante triangolazione.
Fotografare un oggetto, sostiene Barthes, è diverso dal fotografare delle persone.
Nel fotografare un panorama noi certifichiamo la realtà del panorama, mentre fotografando una persona che ci sta a cuore o osservandone una sua fotografia, vogliamo ritrovarla in se stessa.
Diventa urgente, in tal senso, definire gli attori del processo fotografico
Nel processo fotografico esistono tre ruoli diversi con tre diverse responsabilità: L’Operator, ovvero chi realizza la fotografia, lo Spectrum ovvero il soggetto ritratto in questa fotografia e infine lo Spectator ovvero chi fruisce della suddetta fotografia.
La sua teoria più importante Barthes la annuncia all’interno di una seconda e più importante suddivisione, parlando dell’oggetto fotografia e del suo approccio visivo e sostenendo che esistono due elementi fondanti:
Lo studium che è una sorta d’interessamento all’immagine che guardo, senza particolare intensità
Il punctum che è nella fotografia quella fatalità che in essa mi punge ma anche mi ferisce e che mi tocca.
Lo studium può essere riconoscibile nell’entrare in sintonia, come fruitore, con le intenzioni del fotografo, approvandole o disapprovandole senza discuterle. Lo Studium è sempre codificato, il Punctum invece non lo è mai: ciò che posso definire con certezza non potrà mai sorprendere. Il punctum è un particolare improvviso che assume una forza detonante che si spalma su tutta la fotografia. Il Punctum è qualcosa che la mia visione aggiunge alla foto ma che è già all’interno della foto e che la rende unica
Qual è dunque la bravura e l’anima del fotografo, se non il suo essere presente nel momento e nel luogo giusto, tema di cui si era tanto occupato anche Cartier Bresson. Il ruolo del fotografo, in tal senso, va oltre la semplice testimonianza e si fissa su di una magica capacità di cogliere il momento giusto (kairos) e di fissarlo per l’eternità.
Barthes comprende che il tratto ontologico più evidente della fotografia, è l’unione paradossale tra la realtà di cui essa è portatrice e la testimonianza di un tempo che è passato.
Oltre tutte le definizioni e le disquisizioni, il senso di questo saggio può racchiudersi in una idea che la Fotografia porta con sé un’Aria, un’ombra luminosa che accompagna il corpo, qualcosa che conferisce un valore di vita allo Spectrum, senza cui la fotografia resterebbe uno dato muto.
Se il fotografo non riesce a dare all’anima trasparente la sua ombra chiara, il soggetto muore per sempre. La Fotografia, falsa nella percezione e vera nel tempo, sembra acquistare le sembianze di un medium folle che la Società tende a smorzare come può, elevandola ad Arte o banalizzandola nella serialità e nel godimento di ciò che illustra.